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La carenza di ossigeno dell’altissima quota non fa bene ai neuroni, è risaputo: un articolo appena pubblicato sullo European Journal of Neurology, lo riconferma mettendo in relazione la ridotta disponibilità di ossigeno con zone di atrofia nelle aree motorie del cervello, rilevate dalla risonanza magnetica nucleare.

Oggetti dello studio sono stati nove alpinisti di élite, con esperienza decennale in alta quota, che hanno partecipato nel 2004 alle spedizioni organizzate dal comitato Everest-k2-Cnr per il cinquantenario della prima ascensione del K2, salendo in alta quota senza supplementi di ossigeno.

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La novità di questo studio è il metodo usato per l’indagine: per la prima volta viene utilizzata una tecnica di Risonanza Magnetica quantitativa, che misura in modo preciso la quantità di materia cerebrale (bianca e grigia) presente in diverse parti del cervello prima e dopo la spedizione.  Le due  risonanze magnetiche cerebrali sono state realizzate otto settimane prima della partenza e otto settimane dopo il ritorno. Inoltre sono stati eseguiti anche alcuni test neuropsicologici e non solo sugli alpinisti, ma anche su un gruppo di soggetti di controllo, che non erano mai saliti sopra i 3000 metri.

I medici della Fondazione Santa Lucia di Roma hanno evidenziato una significativa atrofia di alcune aree di encefalo coinvolte nella pianificazione ed esecuzione dei movimenti. Per tutti gli alpinisti le zone di atrofia si trovano nell'emisfero sinistro, quello dominante, essendo tutti destrimani. Tale dato sembra confermare la teoria secondo la quale soffrono di più le aree del cervello che vengono più utilizzate e che si trovano in zone raggiunte per ultime, perchè a cavallo tra due territori arteriosi, dal flusso ematico cerebrale, il quale a sua volta in estrema altitudine può essere “difettoso”. Nessuno degli alpinisti studiati per altro aveva manifestato sintomi neurologici, neppure tardivamente e quindi le ascensioni in altissima quota senza supplementi di ossigeno potrebbero essere particolarmente insidiose e causare piccoli cambiamenti in determinate aree del cervello anche in soggetti ben acclimatati e senza sintomi neurologici.

Riguardo ai test neuropsicologici  non vi è differenza tra prima e dopo la spedizione, ma tra gli alpinisti e i controlli. Sembra che la ripetuta esposizione all'altissima quota possa generare in alcuni soggetti danni cronici a carico di particolari regioni cerebrali coinvolte nella memoria e nel movimento.

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E' tuttavia necessario affermare che tali studi andrebbero ripetuti su numeri più ampi di soggetti per essere confermati, cosa alquanto difficile vista la difficoltà a reclutare grandi numeri di soggetti ad altissima quota. Inoltre, gli autori stessi lo riconoscono, vi è stato un lasso di tempo notevole tra l'esposizione alla quota e la valutazione successiva. Sarebbe opportuno fare studi più ampi anche su persone esposte a quote inferiori, anche se per i dati che sono attualmente a disposizione la frequentazione della montagna alle quote alpine non è dannosa e non rappresenta un pericolo per il cervello.

Peraltro studi di questo genere, anche se condotti su pochi individui, possono aiutare nella comprensione di patologie ben più diffuse nella popolazione generale e con alla base simili meccanismi fisiopatologici, per esempio l'ictus cerebrale, che è causato dal ridotto apporto di ossigeno al cervello.

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