Giuliano De Marchi è scomparso venerdì scorso 5 giugno sull’Antelao, sulle sue montagne del Cadore. Difficile accettare questa perdita. Giuliano non era solo un grande alpinista, ma anche un uomo di qualità morali come pochi se ne trovano oggi, aperto, solare sempre con il sorriso sulle labbra, entusiasta ed appassionato della montagna a 360 gradi.
La comunità dei medici di montagna è stata onorata di averlo al proprio fianco: alla fine degli anni Ottanta era entrato nella Commissione Centrale Medica del Cai.
“Il Chris Pizzo italiano” – medico americano che nel 1982 con la spedizione scientifica di John West, raggiunse la vetta dell’Everest senza ossigeno e lì raccolse campioni dei gas espirati – lo aveva definito Geppino Madrigale, collega di Sulmona, perché era stato quasi in vetta all’Everest. Nel 1991 al suo secondo tentativo aveva rinunciato a soli 400 metri dalla cima, mentre era impegnato in stile alpino sul Grand Couloir della parete Nord, per soccorrere Fausto De Stefani, colpito da edema cerebrale. Lo aveva portato mille metri più in basso somministrandogli desametasone ogni sei ore e salvandogli la vita. De Stefani ristabilitosi arrivò poi in vetta, mentre lui dovette rinunciarvi per i congelamenti riportati nel soccorso. Ma come mi aveva raccontato non rimpiangeva nulla: «Ho rinunciato alla cima e le altre volte lo stesso sono tornato indietro perché qualcuno stava male, poi sono ripartito, ma il tempo era cambiato: l'Himalaya è così, molto crudele, perché se non fai questa benedetta cima, è come se non avessi fatto niente. Sono sempre arrivato vicinissimo, una volta ottanta metri, un'altra duecento e sempre da vie diverse. Le esperienze vissute sono state importantissime e non mi importa così tanto la cima».
Lo ricordo in discesa dal rifugio Monzino in Val Veny, dove si era tenuto, esattamente vent’anni fa, il primo corso di aggiornamento per medici di trekking e spedizioni. Mani in tasca, scendeva quasi di corsa dai balzi di roccia attrezzati con corde fisse, senza toccarle. Il solito Geppino lo aveva paragonato a un “bronzo di Riace” e in effetti con il fisico perfetto che si ritrovava e i capelli ricci, la somiglianza era indubbia.
Accademico del CAI, urologo da trent’anni all’ospedale di Belluno, vantava più di mille salite sulle Alpi e un'intensa attività extraeuropea: il Mc Kinley nel 1982, lo Shishapangma nel 1985, il Makalù nel 1986, il Cho Oyu nel 1988, tre tentativi all'Everest per tre vie diverse, un tentativo al K2 nel 1983, alcune vie nuove con difficoltà fino al 7° grado su big walls in terra di Baffin tra il 1997 e il 1998, la via Zodiac al Capitan nel 1999, la traversata con gli sci della Groenlandia nella primavera del 2000, la partecipazione alla spedizione del K2 nel 2004. In quell’occasione era l’alpinista più anziano. Al campo base a fine spedizione era un po’ deluso della sua prestazione, ma il calo era stato solo momentaneo.
Nel 2007 con Michele Barbiero aveva effettuato la prima italiana della traversata del McKinley da Nord Est a Sud Ovest in stile alpino. Ecco il curriculum di un grande protagonista dell’alpinismo italiano che non ha mai peccato di protagonismo: bisognava vincere la sua innata reticenza e modestia per farsi raccontare le sue avventure.
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