Il 14 gennaio 2003 Il Giornale si occupa di cronaca alpina: all’alpe Devero una valanga travolge un gruppo di scialpinisti diretti all’Alpe Sangiatto. Lorenzo Scandroglio è tra loro: la valanga non lo risparmia. Dieci secondi di panico, bianco neve. Ma alla fine è salvo, così come i suoi compagni. Pubblichiamo qui il racconto della terribile esperienza vissuta da Lorenzo in prima persona.
29 dicembre 2002, 10,30 del mattino. Alta Val d’Ossola. Il vento è una lama sui pochi centimetri scoperti del viso. Procediamo in fila indiana, alternando il passo al respiro – sospendendolo a tratti, per studiare il successivo – a venti metri dalla vetta, sulla direttrice della massima pendenza. Sopra di noi un cielo di cobalto in cui si tuffano, a rovescio, i picchi innevati, abbacinanti di luce, delle Alpi Lepontine.
Gli sci li abbiamo lasciati poco sotto perchè da quel lato non fanno presa nemmeno, i rampant, sorta di ramponi che si applicano agli sci da alpinismo e che ricordano la dentatura dei pescecani. L’Alpe Sangiatto è la nostra meta – si raggiunge, pelli agli sci, con tre ore e mezzo di cammino dal Devero, un alpeggio tutto baite, locande, profumo di legna arsa e niente automobili. Le guide parlano di una passeggiata, di un’escursione facile, quasi immune da rischi. Luciano, lui che ha cinquant’anni e 300 ascensioni in carriera, guida la nostra piccola spedizione. Matteo due metri sotto. Poi ci sono io. Puck, il mio Golden Retriever, arranca come può dentro i nostri solchi. In quel punto il manto bianco, inaspettatamente, è più alto e più morbido. Un cumulo di neve posticcia, depositata dal vento. Non ce l’aspettavamo. Procediamo in silenzio. Per un istante mi volto a guardare altri puntini neri che ascendono il Pizzo Cobernas, di rimpetto a noi. Mi giro e preparo un altro passo.
Luciano èsopra. Fermo. All’improvviso, confuso nel sibilo del vento, un grido teso allo spasimo: Viene giù!! Viene giù!!. Ho appena il tempo di vedere una fenditura che si apre. Non saprei dire quanto sopra le mani di Luciano. Avevamo parlato tante volte di valanghe, di come evitarle, di come ci si deve comportare quando si resta travolti. Dell’Arva, il dispositivo elettronico per la ricerca dei corpi. Non riesco a pensare a niente. In una frazione di secondo sono sotto, in un turbine di neve, di bianco, di luce. Bisogna nuotare e mollare tutto ciò che può essere da impedimento, insegnano ai corsi del CAI. Lo sapevo. Me ne sarei ricordato dopo. Dieci secondi da inferno, interminabili, a rotolare giù, a non vedere più il cielo. A pensare: è inita. E, latente, il timore di essere trascinato nel burrone della Valle d’Agaro – un salto di mille metri. Quando l’inferno si placa e torna il silenzio sono completamente sommerso. Non capisco dove è l’alto, dove il basso. Però vedo bianco, riesco a muovermi. Se avessi visto nero, e non solo metaforicamente, avrebbe voluto dire che ero sotto tanto, forse troppo. Ho la neve in bocca, nel naso, nelle orecchie. I bastoncini mi sono rimasti legati ai polsi. Non più di trenta centimetri di coltre sopra di me. Sono sul fianco. Scavo facilmente con le braccia e rivedo il cielo. Puck è là fuori, mi salta addosso come fosse un gioco, scodinzola, mi passa la lingua sulla barba. Mi guardo attorno. Quelli che salgono al Cobernas sono tutti immobili. Quando il polverone si posa cominciano a sbracciarsi. Hanno sentito il boato, simile alle esplosioni delle cave di pietra, ma più prolungato ci avrebbero raccontato poi. Un fronte di trecento metri. Luciano mi raggiunge con la voce tremante. A non più di dieci metri alla mia sinistra vedo un braccio teso verso l’alto. Da quella angolatura ho l’impressione di un corpo assurdamente contorto, come fosse spezzato. Ci gettiamo su di lui e scaviamo. Abbiamo la pala, certo, ma anche un’indicibile ansia di tirarlo fuori. Così facciamo a mani nude. Liberiamo la testa perchè possa respirare. Matteo è dentro quasi in piedi, come quel condannato a morte di Corvo rosso non avrai il mio scalpo.
Degli sci non c’è più traccia. Scendiamo a valle con gli scarponi, sprofondando fino alla cintola, con gli stinchi doloranti. Incontriamo gli uomini del soccorso alpino che ci rincuorano. Ci abbracciamo. Alla fine siamo persino felici: abbiamo perso solo gli sci.
Un reportage, questo, di chi ha vissuto sulla propria pelle un’esperienza dalla quale spesso, e le cronache degli ultimi giorni ce lo dimostrano, non se ne esce vivi. Lorenzo è uno dei tanti (o uno dei pochi?) ad avercela fatta. E pensiamo che la sua testimonianza possa in qualche modo essere utile al lettore, così come è utile ascoltare le parole di chi ancora sà leggere la montagna, decifrarne gli umori, e capire quando è il momento giusto per non sfidarla.