Un giorno di marzo, un uomo percorreva il bosco al di là di malga Campo, godendo del silenzio magico di fine anno. Nello scricchiolio attutito dalle ciaspole sulle neve riconosceva una a una le voci amiche, il cristallo di ghiaccio che si spezza, il volo lento del corvo che, posandosi, scrolla la neve dal ramo; uno schianto di legno secco. Anche la neve gli parlava; brillava luminosa: e si ritraeva opaca secondo le pieghe del terreno e l'esposizione al sole.
Amava quel bosco; vi era vissuto fin da piccolo con il nonno; e aveva imparato a distinguere gli alberi, i muschi, le rocce affioranti, i sentieri, le tracce; sapeva distinguere i segni del camoscio, della lepre, e della volpe: erano i segni familiari, che solo a lui svelavano i segreti del peregrinare inquieto, alla ricerca di cibo o in fuga per uno spavento. Quel bosco era suo; e, ogni volta che vi faceva ritorno, specie ora, dopo tutti quegli anni!, era come tornare ragazzo. Un rumore lo fece voltare, allarmato. Non c'era gente su quelle erte, non turisti, chè non era tempo, anche se Nå in tritt von Sambinélo si snodava proprio lì a fianco; non paesani, che non perdevano tempo in romanticherie; non con quel freddo, di sicuro …
Un uomo, un vecchio, veniva su da Bisele col piglio sicuro del montanaro, non come certi che sembrano assaggiare i passi più che camminare.
Era quasi mezzogiorno; il ghiaccio cominciava a sciogliersi gocciolando al sole; fra poco sarebbe stata ora di mangiare il pane e il formaggio nello zaino, fare pausa, bere un bicchiere di vino.
Si guardarono. Il breve saluto che si usa in montagna li portò a scambiare un commento sul tempo:”La neve canta oggi” fece il vecchio. “Vero, ma verso il Krodjar c’è molla” replicò il giovane. La pronuncia lo tradì: si sentiva da come arrotava la erre che era di quelle parti, che era un cimbro. Parlarono poco. Anche il vecchio era di stirpe cimbra, dall’altra parte del confine: i loro padri avevano combattuto su fronti opposti della Grande Guerra, con gli Austroungarici uno, con gli Italiani l’altro, dentro ai grandi forti corazzati che sparavano cannonate per giorni e giorni; e rimbombo, polvere, calcinacci, odore di cordite facevano impazzire i soldati e gli ufficiali, mentre il cemento armato si sbriciolava come farina. Eppure per secoli erano stati la stessa gente, venuta di Baviera a lavorare la terra su quegli altopiani, in pace; e li avevano dissodati e popolati. Un tempo, erano gente numerosa; e ora, l’aspra lingua antica sopravviveva solo nel paese di Luserna, parlata dalle poche persone che ancora reggono il testimone della memoria. Erano legati a filo doppio a quella terra; non avrebbero potuto staccarsene mai, per quanto lontano la vita li avesse condotti.
Mario, il vecchio, era saggio; e vedeva in fondo alle cose; ne coglieva l’anima perché era parte di essa; era uno scrittore amato e famoso; Andrea il giovane, ascoltava rapito e affascinato, come ammaliato. Intuiva, confusamente che quell’incontro non era casuale, e che lentamente gli avrebbe cambiato la vita: Avrebbe voluto confessare al grande vecchio che lo ammirava moltissimo, che anche lui sognava di personaggi e vicende che gli urgevano dentro; che chiedevano di essere scritti da contastorie come lui; che assicurasse forma alle mille voci idi un paese così singolare, tedesco in terra italiana. L’incontro fu breve: il sole era ancora alto quando il vecchio si accomiatò; e ognuno riprese il proprio cammino: L’aria frizzante riempiva gioiosamente i polmoni; e la montagna cantava nel profondo azzurro del cielo.
Mario Rigoni Stereo sarebbe moto da lì a poco, lasciando libri e racconti indimenticabili, che ancora rasserenano i nostri giorni, mentre nel cuore di Andrea prendevano vita storie bellissime della sua Luserna e della sua fantasia: la storia “lunga e pacifica di Katerj, che è nata donna all’alba di un secolo breve ma feroce ed è vissuta uomo”; la storia di Shimon che venne su da Venezia, e ritrovò “una lingua meravigliosa in tutto simile all’antica lingua dei rabbini alemanni”; e la storia di Pietro che lì si dice Peatar, e Petarle, in quella terra sulla cima della montagna, dove la gente è buona e ospitale anche se parla con i suoni strani di una lingua straniera.
E le avrebbe scritte, Andrea, quelle storie; e Mario sarebbe arrivato poco prima di morire a confezionare per loro un elogio, gustandole come “una passeggiata tonificante tra i nostri boschi”; ricordando una gita a Luserna in cui aveva accompagnato il suo editore Giulio Einaudi a visitare la Haus von Prükk e la biblioteca del piccolo paese e a scoprire che “come importanti per vivere bene ci sono anche fuori dalle grandi città”.
Andrea Nicolussi Golo non fa lo scrittore di professione ma è uno scrittore vero, un cantastorie affascinate, e il suo libro di racconti “Guardiano di stelle – e di vacche”, edito da Biblioteca dell’immagine di Pordenone, è pieno di emozioni e di semplicità, di storie “che arrivano sempre per strade traverse”; escono dal bosco più antico di quelle montagne; e ci vengono incontro per donarci parole limpide e innocenti.
da Strenna Trentina 2011