Giovedì 4 agosto alle 18, al Jardin de l’Ange di Courmayeur, è in programma la presentazione del libro “Lo sguardo e la speranzaâ€, presente l’autore Mario Melazzini. Non è una serata alpinistica in senso stretto, si parla di un’altra scalata, sul terreno difficile di una malattia cronica. Mario Melazzini è medico, specialista in Ematologia generale Clinica e Laboratorio; ricercatore in ambito onco-ematologico. Nel 2003 gli è stata diagnosticata la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Lo scorso dicembre è stato eletto Presidente dell’AIFA, Agenzia italiana del farmaco. Ha ricoperto diversi incarichi in Regione Lombardia, tra cui quello di Assessore alla Sanità , di Assessore alle Attività produttive, ricerca e innovazione e di Assessore all’Università , ricerca e open innovation. Fondatore e past President di AriSLA, Fondazione italiana per la ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica, è attualmente Presidente di Fondazione Aurora, che ha dato vita al Centro Clinico NeMo Sud presso l’Azienda Ospedaliera universitaria Policlinico ‘G. Martino’ di Messina. E’ inoltre Direttore Scientifico del Centro Clinico NeMo di Fondazione Serena presso l’Azienda Ospedaliera Niguarda di Milano. Ha pubblicato numerosi articoli di carattere scientifico ed è autore di diversi libri legati alla sua esperienza di medico e paziente: l’ultimo libro si intitola ‘Lo Sguardo e la Speranza’ ed è stato pubblicato con le Edizioni San Paolo lo scorso novembre. I proventi della vendita sono destinati alla ricerca e all’assistenza ai malati di Sla.
Nell’occasione della presentazione del libro, Mario Melazzini ha risposto ad alcune domande.
Nel libro racconta il percorso di accettazione della malattia, percorso non sempre lineare. Attraverso quali fasi è passato? Il mio è stato un lungo percorso di consapevolezza, non di accettazione, della malattia: un cammino che continua ancora oggi. Dopo la diagnosi, ho vissuto momenti di grande sconforto. Mi rifiutavo di vivere questa malattia così devastante, per la quale la scienza medica, pensavo, fosse impotente. Pianificavo razionalmente il pensiero di vivere nelle condizioni in cui la malattia mi avrebbe portato. Ma oggi mi rendo conto che in quel periodo vivevo continuando a guardare al passato, alle cose che non avrei più potuto fare, come andare in bicicletta e arrampicarmi sulle montagne. In quei momenti difficili, per provare a me stesso l’insuperabilità della mia condizione, mi sono rifugiato per un lungo periodo di solitudine proprio tra quei monti che amavo. In compagnia del silenzio, a volte assordante, e della lettura del libro di Giobbe – lettura che mi aveva consigliato il mio caro amico, Padre Silvano – mi ha fatto comprendere l’essenza dell’esistere e, in particolare, avere la consapevolezza del Mistero che ci circonda e ci accompagna. A poco a poco qualcosa è cambiato in me e ho capito che nonostante dovessi fare i conti ogni giorno con il limite, avrei potuto aspirare ancora ad una vita piena e realizzata. Ho compreso ed oggi ne sono un convinto sostenitore che una malattia ‘inguaribile’ non è sinonimo di ‘incurabile’.
Quanto è cambiata la sua professionalità di medico vivendo la malattia da paziente? Ho sempre identificato il mio essere medico con la convinzione che avrei sempre dedicato la mia vita alla ricerca e alla cura dei malati. Prima della malattia identificavo la capacità di essere un buon medico, ricercatore, con la risposta concreta che sarei stato in grado di offrire al paziente. Ma con la malattia, la Sla, mi sono imbattuto con l’impotenza dei medici, della scienza medica di fronte ad una malattia rara che nel tempo mi avrebbe reso totalmente dipendente dagli altri. Da paziente, vivo in prima persona le problematiche del malato, ma lo faccio anche con lo sguardo del medico e questo mi permette di condividere la mia esperienza con gli altri malati: è il valore aggiunto della malattia, essere d’aiuto a me stesso ma anche a tante altre persone. Nel rapporto tra una persona malata e chi la cura, la dignità e la speranza stanno nell’occhio del curante: il coraggio dello sguardo sull’altro infatti diventa strumento stesso di cura e dà dignità reciproca.
Per sintetizzare si può raggiungere il “benessere” psico fisico anche con una malattia cronica? Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità , fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita. E può succedere che una malattia che limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative. Perché, come dico spesso, ed è vero: la malattia, l’evento traumatico, non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’«essere» conta di più del «fare».
Appassionato di montagna, quanto le è stata utile la pratica dell’escursionismo/alpinismo nell’affrontare la malattia ed elaborare un suo personale percorso per vivere con “Lei”. Da forte appassionato, certamente stare vicino alle mie amate montagne ancora oggi è fonte di grande serenità . Ogni giorno per me è un percorso da compiere, molto impegnativo dal punto di vista fisico, ma estremamente motivante. Nella nostra società aleggia quello che io definisco il pensiero del benpensanti, cioè che vivere in determinate condizioni, con la malattia o con una grave disabilità , non sia coniugabile con una qualità di vita dignitosa. Ma la malattia paradossalmente può diventare nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona e, se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti e vivere pienamente. Mi sveglio felice la mattina e mi corico la sera molto stanco ma soddisfatto e felice per ciò a cui ho potuto contribuire, ma soprattutto grato di ciò che mi è stato donato.
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