La prima neve, il primo vento, accumuli pericolosi e cadono le prime valanghe: come ogni anno si comincia, purtroppo, la conta di morti e feriti.
Le valanghe richiedono, come tutti i pericoli della montagna, una prevenzione primaria, ossia un’attenta scelta della gita, dei pendii, dell’esposizione, da pianificare a tavolino prima di partire, in base ai dati che si hanno a disposizione dai numerosi bollettini niveo meteorologici che ogni regione fornisce e riassume poi con un grado della scala di rischio valanghe (Aineva). Considerato che si può fare una gita senza problemi attentamente valutata anche con pericolo alto e che si può provocare un distacco di valanga con grado di pericolo generale basso, bisogna poi attuare una corretta valutazione delle condizioni della neve e dei pendii sul posto e saper cambiare itinerario o valutare piccole differenze di percorso, che possono valere la differenza tra la vita e la morte. Sono valutazioni difficili, che si impara a fare sia a tavolino sia soprattutto con molta esperienza pratica. Un attento esame delle proprie capacità di giudizio può quindi aiutare nelle decisioni.
Anche adottando tutte queste misure rimangono pur sempre margini di errore di valutazione e previsione (errare è umano) o di condizioni non prevedibili. Per questo, chi si avventura fuori pista, con gli sci o le ciaspole, deve avere sempre addosso e acceso l’apparecchio Artva, il segnalatore per la localizzazione e la ricerca dei sepolti, nonché pala e sonda. Se si ha la “sfortuna” di essere travolti da una valanga e la fortuna di sopravvivere ai traumi conseguenti, cosa che avviene nel 93% circa dei casi, per non morire soffocati è fondamentale il soccorso immediato prestato dai compagni di gita.
Se il recupero del sepolto avviene infatti nel giro di quindici minuti (tra i dieci e i venti, a seconda della densità della neve, perché una neve molto densa più facilmente provoca morte per asfissia), le possibilità di uscirne vivi sono ancora molto alte (intorno al 90%), ma calano bruscamente nel tempo che intercorre tra la chiamata dei soccorsi organizzati e il loro arrivo. I compagni di gita devono quindi sapere usare rapidamente e in modo corretto localizzatore, sonda e pala per soccorrere chi è rimasto sotto. Proprio per imparare ad agire rapidamente, per di più in un momento in cui è difficile essere lucidi e razionali, sono operativi i “campi Artva” dove si può fare esercizio per imparare a usare l’apparecchio di ricerca “a occhi chiusi”, quasi in automatismo, in modo da poter affrontare e superare le condizioni di stress cui si è sottoposti in caso di incidente reale. Nei campi Artva di solito esiste una centrale di comando dove tutti gli utenti possono attivare uno o più trasmettitori, sepolti a diverse profondità e inclinazione, simulando situazioni realistiche di ricerca con diversi livelli di difficoltà. I trasmettitori vengono attivati in modo casuale, non codificato, e sono sistemati in scatole che al semplice tocco della sonda inviano il segnale alla centrale di comando.
Cosa fare una volta trovata la persona sepolta? Due cose immediate: liberare le vie aeree e evitare la perdita ulteriore di calore isolandola termicamente, in attesa del trasporto in ospedale, cercando di evitare il più possibile i movimenti all’infortunato. Se il recupero dell’infortunato avviene dopo i canonici venti minuti potrebbe infatti esseresi instaurata l’ipotermia, cioé l’abbassamento della temperatura corporea, che a sua volta può provocare l’arresto cardiaco. L’arresto cardiaco può capitare però anche in seguito ai movimenti fatti fare all’infortunato dopo averlo dissepolto, probabilmente per il rimescolamento di sangue “freddo” movimentato dagli arti. Se le vie aeree sono pervie ed esisteva una cavità aerea anche piccola, il sepolto potrebbe non essere morto per asfissia o per traumi, ma essere in stato di morte apparente per ipotermia. In questo caso occorre il trasporto immediato in un ospedale dove ci sia la possibilità di praticare manovre rianimatorie, sia con riscaldamento esterno (coperte calde, insufflazione di aria calda) sia con manovre invasive, la circolazione extracorporea (CEC) o il metodo dell’ossigenazione tramite membrana extracorporea (ECMO), quindi un ospedale con un centro di chirurgia cardio-toracica. Grazie al registro internazionale dell’ipotermia (HIR) istituito due anni fa si sta cercando sia di valutare quel che è stato fatto, paragonando differenti metodi di trattamento usati, sia di trovare nuovi marcatori per dichiarare un paziente non più recuperabile (il livello del potassio nel sangue, il pH del sangue, i tempi di coagulazione)
I limiti della sopravvivenza umana con basse temperature corporee sono incredibili: la sopravvivenza con temperatura minima registrata è quella della radiologa Anna Bagenholm (descritto in M. Gilbert. The Lancet Jan 29 2000 ) che sciando cadde in un torrente ghiacciato e rimase intrappolata nell’acqua sotto una lastra di neve. Pur avendo una cavità aerea per respirare, dopo 40 minuti andò in arresto cardiaco e quando fu estratta, dopo altri 40 minuti, la sua temperatura corporea era di 13,7°C. Fu rianimata per nove ore e si svegliò dal coma dopo dieci giorni, con un recupero pressoché totale dopo due mesi. Analogo è il caso di un bambino caduto nell’acqua di un laghetto ghiacciato, che fu risuscitato quando la sua temperatura corporea era di 13°C (U. Kjelmann. Göteborg, Sweden, 2011)
Questi esempi sono il segno che c’è ancora molto da capire dell’ipotermia. In questo senso il registro internazionale dell’ipotermia, aumentando le conoscenze globali in merito, potrebbe aiutare a produrre nuove linee guida per aumentare il numero delle persone riscaldate con successo.
foto: Esercitazione cani valanga Tonale Presena 2012 – archivio Adamello Ski