«La prima italiana di Cave of Forgotten Dreams è il modo migliore non solo per calarci, è il caso di dirlo, nel programma di questa 59esima edizione, ma anche per guardare al futuro del festival (e del cinema) accompagnati da un maestro che con i suoi film, così spesso estaticamente attratti dalle inquiete meraviglie della natura e della montagna, resta una figura di riferimento per il TrentoFilmfestival alla vigilia del suo 60° anniversario», ha spiegato Sergio Fant, coordinatore del programma cinematografico del TrentoFilmfestival.
Da notare che il film per ora non è in programmazione in Italia e gli spettatori del Trento Filmfestival potrebbero essere gli unici per lungo tempo ad aver avuto il privilegio di vederlo.
Il documentario di Herzog svela i segreti della grotta scoperta dallo speleologo Jean-Marie Chauvet nel 1994. Si trova in Francia, nell’Ardèche regione Rhône-Alpes, ed è decorata da circa 500 pitture murali datate tra i 35mila e i 28 mila anni fa, quando le Alpi erano coperte da 2500 metri di ghiaccio. Herzog ha ottenuto permessi speciali dal Ministero francese della Cultura per filmare per poche ore e pochi giorni l’interno della grotta normalmente chiusa ai visitatori per proteggere il microclima interno. La grotta, che al tempo delle pitture era aperta all’esterno ed è stata chiusa da una frana naturale, ha un clima secco e i reperti all’interno potrebbero venir danneggiati dall’umidità prodotta dal respiro dei visitatori.
Cavalli e stambecchi, ma anche rinoceronti (nell’Ardèche!), mammuth e leoni delle caverne sono i soggetti degli artisti che si sono succeduti a dipingere le pareti della grotta, probabilmente non abitata, ma usata come luogo di culto o cerimonie. Colpiscono realismo e dinamicità delle raffigurazioni. Gli occhi vivi dei leoni delle caverne, (che i maschi di questa specie estinta fossero privi di criniera è stato confermato proprio da questi dipinti), bisonti in movimento, cavalli che nitriscono: gli ignoti autori hanno lasciato l’impronta di un sogno lungo millenni.
Herzog indaga con rigore scientifico con geologi, paleontologi, storici dell’arte e del periodo preistorico, ma non può rinunciare all’attrazione estetica, al fascino inquietante che gli antichi segni esercitano su di lui e racconta dell’alba dell’uomo con immagini giocate sulle luci, con musiche e suoni. Si riferisce al tempo del sogno degli aborigeni australiani, ad una creatività ispirata dalla natura eppure guidata da una mano altra. Volge infine uno sguardo inquietante al futuro quando la videocamera indugia su una vicina centrale nucleare e su un bioparco riscaldato dalle acque della centrale stessa, popolato di coccodrilli (in Ardèche!) con alcuni esemplari albini. Sembra più certo il passato dei nostri antenati (è grazie al loro modo di vivere se siamo qui oggi) che il futuro popolato di mutanti che si sta preparando.