Otto sherpa “in spola” tra campo base e campi alti, due piloti di lunga esperienza pronti ad alzarsi in volo, due compagnie di elicotteri di altrettanti diversi continenti e un nome, quello di Dario Schwoerer, noto al pubblico elvetico per una storia che da anni raccoglie ammirazione e un po’ d’invidia. Passa di qui una delle vicende più toccanti, e allo stesso tempo tristi, che hanno costellato la tarda primavera dell’alpinismo himalayano: il recupero del corpo di Gianni Goltz, la guida alpina valmaggese morta sull’Everest per sfinimento nel 2008, durante una spedizione senza ossigeno effettuata per accompagnare una squadra della televisione svizzero tedesca SF sulle pendici della Dea Madre.
Il corpo dell’alpinista, rimasto a riposare per oltre venti mesi a quota ottomila, era stato sepolto quel triste giorno di due anni fa in una tomba di pietre a poca distanza dalla grande roccia nei pressi di Colle Sud. Da lì, ai primi di maggio, è stato recuperato per essere finalmente riportato a casa. Ma non è stata un’operazione semplice: solo dopo una decina di giorni e un complesso insieme di passaggi, effettuati in parte a terra e in parte in volo, Gianni ha potuto finalmente raggiungere Kathmandu, dove la sua storia è tornata a rivestirsi della doverosa riservatezza famigliare.
Cosa significa recuperare un corpo dal Tetto del mondo, trasportarlo a valle, decidere quali operazioni effettuare e in quali momenti, e soprattutto sentire sulle proprie spalle il peso del ruolo di coordinatore di un intervento di questo genere? Dario Schwoerer, anima della spedizione Top To Top, l’incredibile viaggio che dal 2002 sta conducendo con la moglie, e ora anche tre deliziosi bimbi, con lo scopo di passare dai Sette Mari alle Seven Summits per “infondere ai più piccoli la fiducia in un futuro migliore”, è la persona che ha rivestito questi panni. E ora racconta anche all’Italia, dove le informazioni sull’operazione sono arrivate frammentarie e non sempre corrette, come si sono svolte quelle difficili giornate nelle quali, data la concomitante tappa di Top To Top al campo base dell’Everest, si è trovato a prendere decisioni in memoria e nel nome di un conterraneo che il suo futuro ha dovuto abbandonarlo a 8mila metri.
“Il merito – spiega Dario condividendo, onestamente, la responsabilità con le persone con cui ha collaborato – va a otto sherpa, guidati da Jyamchang Bhote dell’agenzia “Active Holidays”. Sono stati loro, il 4 maggio, alle 2 del mattino, a partire materialmente da Campo 2 per Colle Sud, dove Gianni riposava. L’hanno raggiunto all’una del pomeriggio, portando con sé tutto il materiale necessario per il recupero, compreso una sorta di toboga. I normali alpinisti in genere impiegano due giorni per arrivare così in alto…”. La squadra, parte della spedizione di pulizia, era già partita con l’intento di trovare Gianni e riportarlo “in basso”. Era una delle volontà di cui si era fatto portavoce Kari Kobler, la famosa guida alpina svizzera che da tempo organizza spedizioni himalayane con la società che porta il suo nome, e che nel 2008 era patron della spedizione di cui Gianni faceva parte. Tra gli uomini di punta del gruppo di Kobler accampato a maggio al Base del versante nord c’era Jyamchang appunto, il quale ha assunto il ruolo di leader del gruppo di recupero e ha tenuto i contatti, per tutto il tempo dell’operazione, con Dario.
“Gli sherpa della Active, guidati da Dorjee Sherpa e coordinati a un più alto livello da Jamchang, hanno lavorato duramente per un’ora e mezza nell’aria rarefatta per scoprire la tomba con le loro piccozze ed estrarre il corpo – racconta ancora Dario -. Verso le 3 del pomeriggio, hanno legato Gianni alla slitta”. Ma la discesa non è stata un’operazione facile. “Superare la fascia gialla è stato particolarmente critico – prosegue -, specialmente nei traversi. Hanno dovuto assicurarsi e calare in corda doppia il corpo per almeno una cinquantina di volte! All’una del pomeriggio sono arrivati al Bergschrund del Lhotse (l’intersezione tra la parete e il ghiacciaio sottostante, ndr) e hanno lasciato lì il corpo, poi sono tornati a Campo 2 per un breve riposo prima di risalire e trasportare il corpo la mattina dopo fino a questo campo”. Un’impresa, nel vero senso della parola. “Si sono stancati molto – racconta ancora Schwoerer – e hanno patito un po' anche la fame dopo ventiquattr’ore di duro lavoro e senza cibo caldo”. Poi “il tempo si è fatto brutto e si è alzato il vento, cosa che ha reso impossibile il trasporto immediato dal campo 2 in elicottero”: “L’alternativa – fa notare Dario – era di attraversare il pericolosissimo Ice Fall con un peso da 80 chili, tra crepacci molto profondi, seracchi e torri di ghiaccio pronte a crollare in ogni momento”. Una scelta obbligata, dunque: “Esporre gli sherpa a un rischio di quel genere, quando avevamo la possibilità di trasportare il corpo in elicottero sotto la guida dei più famosi esperti svizzeri di recuperi estremi in alta quota, Gerold Biner, il pilota, e Bruno Jelk, lo specialista, di Air Zermatt, era davvero stupido”.
I due piloti, come le cronache di quei giorni avevano già raccontato, si trovavano infatti in Nepal per organizzare un sistema di soccorso locale: uno scopo raggiunto con la collaborazione della nepalese Fishtail Air, i cui elicotteristi Sabin Basnyat e Siddhartha erano stati individuati come partner ideali. “E così – continua Dario – nei giorni seguenti il mio compito è stato quello di allestire e coordinare tutto l’occorrente per il recupero. La cosa più difficile è stata individuare la finestra di bel tempo: il 16 maggio mi è sembrato il giorno giusto, con poco vento come avevamo bisogno che fosse”. Scelto il momento, Dario ha dato a Jyamchang l’ordine di inviare 4 sherpa dal Campo base a Campo 2, passando ancora una volta attraverso l’Ice Fall, per preparare il corpo al trasporto in elicottero. “Sono partiti all’una di notte del 17 – ricorda Dario – , una giornata che, a pensarci ora, ha rappresentato il giorno migliore della stagione per tentare la cima dell’Everest”.
Tornare al corpo è stato ancor più triste, questa volta. “Quando gli sherpa sono arrivati da Gianni per recuperarlo, si sono accorti che qualcuno gli aveva rubato le scarpe”, ricorda con rammarico Dario. Dettagli, forse. Ma segno che neppure la quota, e tanto meno lo spirito della montagna, sono garanzia di pietà. Tant’è. “Alle 5.45 – continua Dario – l’elicottero pilotato da Gerold della Air Zermatt e dal capo pilota Sabin della Fishtail è venuto a prendermi a Khumjung. Abbiamo volato fino a Periche, dove abbiamo predisposto il sistema di cavi che avrebbe dovuto usare Bruno Jellk per il recupero. Poi, più su nella valle, a Gorak Shep, abbiamo installato un deposito e da qui è partito l’elicottero con Gerold ai comandi e Bruno appeso ai cavi”. Tutto il peso è stato ridotto al minimo e i due sono stati dotati di ossigeno pronto da usare in caso di emergenza.
Con questo assetto, i soccorritori hanno dapprima recuperato il corpo di un alpinista russo, Sergey Duganov, morto in quei giorni sulle pendici del Lhotse e portato a Campo 2 dai membri della Extreme Everest Expedition, la spedizione organizzata dal governo nepalese per recuperare il materiale abbandonato in alta quota nel corso degli anni. Poi, Bruno Jelk e Gerold Biner hanno pensato a Gianni e l’hanno riportato giù. “Alla fine – commenta Dario – il recupero è stato un grande successo. Tutto merito degli otto sherpa della Active Holidays, sotto la guida di Jyamchang Bhote e Dorjee Sherpa, la bravura e la competenza di Bruno e Gerold, la perfetta collaborazione tra le due compagnie di elicotteri”. E, naturalmente, il coordinamento dello stesso Dario.
Il corpo di Gianni, infine, è stato trasportato a Gorak Shep e da qui a Kathmandu, dove è stato consegnato alle mani di Lhakpa Gyalzen Sherpa, della Asia Rescue & Medical Service (Arms – India), e portato in ospedale. L’ambasciata svizzera, dal canto suo, si è invece prodigata per sbrigare le formalità burocratiche, in accordo con Dorjee Sherpa. Ai primi di giugno, l’ultima puntata. Un invito in Ambasciata da parte dell’ambasciatore svizzero, Thomas Gass, a tutte le persone coinvolte nell’operazione. E la consegna, a mano, di una lettera di formale ringraziamento.