Figura carismatica dell’alpinismo mondiale tra gli anni Sessanta e Settanta, formidabile bevitore e iracondo attaccabrighe, lo scozzese Dougal Haston non mancò di occupare un posto da star nell’immaginario collettivo del mondo alpinistico di allora, ma la sua figura è poco conosciuta dalle nuove generazioni. A riempire questo vuoto arriva la biografia di Jeff Connor “Dougal Haston la filosofia del rischio” appena uscita nella collana “I rampicanti” delle edizioni Versante sud.
Si tratta di una minuziosa ricostruzione della vita di Haston, dall’infanzia alla sua morte avvenuta sotto una valanga a Leysin in Svizzera nel 1977, attraverso brani dei diari e le testimonianze dirette di amici e delle compagne di Haston.
Introverso, avvezzo a grandi bevute sin dalla giovinezza, sempre ”arrabbiato”, Haston potrebbe entrare a pieno titolo tra i personaggi di un dramma di John Osborne. Il libro, risulta un po’ noioso nella prima parte con l’elenco infinito di ascensioni nelle highlands scozzesi e in Galles, ma diventa avvincente quando racconta il periodo della maturità alpinistica. È il lungo periodo trascorso a Leysin, dove ereditò la direzione della scuola internazionale di alpinismo da John Harlin, caduto nell’apertura della direttissima sulla Nord dell’Eiger, di cui Haston stesso fu uno dei protagonisti, delle migliori realizzazioni sulle Alpi e in Himalaya, in coppia prima con Don Whillans e poi con Doug Scott.
Proprio con Scott, Haston condivise un epico bivacco a 8200 metri di quota senza tenda, né sacco a pelo né ossigeno dopo la prima ascensione della parete Sud Ovest dell’Everest: un esempio dell’impegno fisico e mentale che profondeva nelle sue salite estreme.
Ma l’analisi critica non è riservata al solo Haston: altri personaggi emblematici dell’alpinismo internazionale, da Harlin a Pierre Mazeaud, da Whillans a Chris Bonington sono ritratti con i loro pregi e i loro, a volte numerosi, difetti. Dai propri, Haston quasi si riscattò nell’ultimo periodo della sua vita, abbandonando bevute e atteggiamenti superomistici, dimostrando più sensibilità e disponibilità verso gli altri. Sembrava meno ossessivo e arrabbiato nella ricerca della libertà, “nel percorrere il cammino scelto di penetrare gli estremi”.
Fu con apparente tranquillità che affrontò con gli sci i pendii de La Riondaz, la sua ultima discesa fuori pista. “Non ho mai pensato seriamente di morire in montagna, anche se lo ammetto che il rischio è sempre presente. Fa parte del gioco” aveva risposto in un’intervista al ritorno dalla spedizione all’Everest del 1971.