Di ungulati di montagna si è parlato martedì scorso, 26 novembre, nel workshop internazionale sul camoscio, organizzato dall'Ente Parco Gran Paradiso e dal Parco Nazionale Svizzero, situato in Engadina, nel cantone dei Grigioni. Il laboratorio, che faceva parte del progetto Interreg Great (Grandi Erbivori negli Ecosistemi Alpini in Trasformazione: 2011 – 2014), si è tenuto all'Espace Loisir in località La Palud di Rhêmes-Saint-Georges. Vi erano iscritte oltre 120 persone tra ricercatori, studenti e operatori in ambito faunistico, provenienti da tutta Italia e Svizzera; tra i relatori i maggiori esperti in ambito accademico di fauna alpina, tra i quali Sandro Lovari, etologo dell’Università di Siena ed ex presidente del Caprinae Specialist Group dell'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, e Jürgen Hummel dell'Università di Gottinga.
Il progetto Interreg Great, è nato nel 2011 con lo scopo di uniformare i metodi di monitoraggio e di raccolta dati a lungo termine, in particolare sulla eco-etologia e sulla biologia delle quattro principali specie di ungulati di montagna, presenti nei due parchi nazionali: camosci, stambecchi, cervi e caprioli. «E’ importante uniformare le metodologie di raccolta dati per poterli comparare– spiega Bruno Bassano, veterinario responsabile del servizio scientifico e sanitario del Parco del Gran Paradiso – I due parchi sede del progetto sono profondamente diversi: il parco del Gran Paradiso è su terreni comunali o privati e quindi registra la presenza di uomo e animali domestici, mentre il parco svizzero, di dimensioni paragonabili alla sola valle di Cogne, è tutto su terreno confederale, chiuso a qualsiasi disturbo antropico da cento anni (è stato istituito nel 2014). E’ quindi molto interessante comparare l’ecologia dei vari ungulati, con particolare interesse al camoscio e allo stambecco, in relazione all’evoluzione dei due tipi di ambiente, antropizzato e non, in funzione dei cambiamenti climatici».
Ma cosa indicano i dati preliminari emersi nel workshop? «Per esempio si è osservato che, per i cambiamenti climatici, camosci e stambecchi si sono spostati verso quote più alte e che la vegetazione matura più in fretta, in media con quindici giorni di anticipo – spiega Bruno Bassano – Gli animali hanno difficoltà a sincronizzare la nascita dei capretti proprio per la rapidità con cui si sono verificati i cambiamenti climatici e di conseguenza vegetazionali. Si è visto anche che la perdita di superficie a prateria, nell’area lasciata libera dall’azione dell’uomo, è rilevante e va a scapito di camosci e soprattutto stambecchi, mentre favorisce cervi e caprioli, animali di foresta». Dalla condivisione dei database disponibili e dal confronto dei dati raccolti, sarà quindi possibile comprendere in particolare quali siano i fattori che attualmente condizionano lo sviluppo delle popolazioni ungulate, e delineare scenari di cambiamento per modulare la protezione delle specie. «I parchi devono servire come area test – conclude Bruno Bassano – e per questo è importante avere lunghe serie temporali di monitoraggio della fauna, soprattutto in aree così diverse relativamente alla presenza di attività umane. Nel corso del workshop si è anche parlato dello stambecco, valutandolo non solo come valore “di caccia”, tipico del mondo germanico, ma anche come valore turistico e quindi economico».
Foto: Camoscio in salto – di Giuseppe Giordani