Kathmandu, 10 aprile 2010 – Il ritorno dal K2 nell'agosto del 2008 è stato come ritornare da una guerra. Ho provato dolore e sollievo, gratitudine e un senso di colpa per essere sopravvissuto. Undici amici non stati così fortunati. Scendendo dalla montagna, ho visto cose che mi causano incubi ancora oggi. Il recupero dopo l'amputazione delle dita dei piedi è stato un processo lungo, ed ero solo, così ho parlato. Ho parlato molto con i giornalisti su quello che ho visto sulla montagna. Forse mi ha aiutato in quel periodo difficile. Non lo so. Oggi preferirei non averne mai parlato. Quando ho parlato ai media sulle circostanze della morte del mio amico Gerard, ho detto cose che hanno devastato la sua famiglia. Aver appreso in seguito che probabilmente l'uomo che vidi morire probabilmente era Karim Meherban, aumenta la mia tristezza. Karim, padre di tre bambini, era un uomo che conoscevo e rispettavo. Nessun bambino dovrebbe soffrire la tragedia di perdere il padre, e tanto meno di leggere la descrizione della sua morte in un libro o in una rivista. Esprimo le mie sincere scuse ad entrambe le famiglie Meherban e McDonnell.
Più che mai, questo è per me un momento di riflessione. Parto per il Lhotse, la mia prima vetta di 8000 metri dopo il K2. Il mio compagno di scalata Pasang Lama è una delle poche persone che conosco che comprende l' immensità di questa tragedia e il suo significato per gli alpinisti e le famiglie coinvolte. Pasang perse due dei suoi cugini, Jumik Bhote e Pasang Bhote, nella stessa valanga che uccise il mio amico Gerard durante il nostro tentativo di soccorso. I sentimenti di Pasang sulla tragedia sono molto simili ai miei, così mi ha proposto un incontro speciale, quando sono arrivato a Kathmandu ieri. Mi ha portato a incontrare Dawasangmu Bhote, la moglie di Jumik, lo Sherpa che ho incontrato aggrovigliati nella corda fissa a che non sono riuscito a salvare. Dawasangmu sembra avere circa 18 anni.
Quando suo marito morì sul K2, lei rimase sola con il loro figlio di tre giorni. La forza e la grazia di questa donna sono l'incarnazione del vero eroismo. Tenere in braccio il figlio di Jumik, Jen Jen, è stato uno dei più grandi privilegi della mia vita. Purtroppo a malincuore io non sono stato così forte da salvare la vita di suo papà.
Marco Confortola
Foto: archivio Marco Confortola