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Come tutti gli anni,  da 1007 anni, la Fiera di Sant’Orso anima le vie di Aosta (il 30 1 31 gennaio). Treni affollati, autobus speciali, servizi navetta dai parcheggi, per portare tanti turisti e tanti valligiani da ogni angolo della regione a questa kermesse che anima l’inverno di montagna.

Secondo la tradizione la fiera sarebbe nata nell’anno 1000, ma la data è simbolica e nessuna documentazione è stata ritrovata che testimoni l’inizio di questa manifestazione proprio nell’anno 1000. Forse esisteva già in epoca romana, forse si teneva a partire dal primo Medioevo: pare che presso l’ospedale di Sant’Orso, di cui si ha notizia dal 1177, si distribuissero zoccoli ai poveri e che esistesse un mercato di utensili e oggetti in legno, forse  a scopo filantropico. Si può ipotizzare che il clima mite che interessò le regioni alpine dal secolo IX al XIV abbia favorito gli spostamenti della popolazione in un periodo dell’anno che ai nostri giorni, (ma non quest’anno: 11°C!), dovrebbe essere freddo.

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A fine gennaio le giornate si sono considerevolmente allungate, la primavera è alle porte, si consumano riti antichi di rinnovamento e per i contadini era importante la compravendita di oggetti per i lavori nei campi, ormai imminenti. È quindi probabile che una fiera di granaglie e utensili si svolgesse proprio a fine gennaio, almeno a partire dall’XI secolo. Pur con lunghe interruzioni dovute a guerre, pestilenze e carestie, la tradizione è sopravvissuta, seppure in sordina, fino alla definitiva ripresa, sostenuta dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta e dal Comité des Traditions Valdôtaines, all’indomani della seconda guerra mondiale, assumendo questa volta proporzioni grandiose.

La fiera è non solo occasione d’incontro tra tutta la popolazione della Valle d’Aosta, ma anche festa che annuncia la primavera, in ricordo di un inverno già passato per metà. Si vendono gli oggetti di artigianato tipico del territorio: grolle, coppe, “cornaille” (mucche), galli e gnomi, stoffe e merletti, sculture in legno e pietra ollare, a soggetto religioso o zoomorfo, mobili e oggetti in ferro battuto, utensili di uso domestico e agricolo, stampi per burro, scodelle, cucchiai, taglieri per il pane (copapan), piatti per polenta, scale, botti, cestini e gerle, e ancora altro. Accanto ai contadini artigiani che dedicano le lunghe sere invernali all’intaglio e alla scultura del legno, si trovano artisti a tempo pieno le cui opere preziose sono conosciute in tutto il mondo; accanto all’artigianato tipico valdostano, si trovano gli oggetti non tradizionali: quest’anno era bello vedere i ricami bulgari a punto croce (così simili a quelli di Champorcher) che una ricamatrice dal nome slavo esponeva nel segno di una reale integrazione transfrontaliera. E l’atmosfera di festa è rinforzata da abbondanti bevute di vin brûlè per riscaldare anime e corpi.

foto e testi di Oriana Pecchio

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